giovedì 27 ottobre 2016

Questa notte sono rientrata alle 2.30 a casa e non sono più riuscita a prendere sonno. Non c'era più il mio cane, Ulderico, ancora sveglio nel soggiorno ad aspettarmi. Così, mi sono ritornati in mente i suoi occhi marroni, che guardavo per ore durante il mio, seppur limitato, tempo libero… Ed ora mi sento piena di tenerezza, ma allo stesso tempo sono pervasa dalla nostalgia per quella che ero, fino a qualche mese fa, così piena, così al centro di ogni più piccolo avvenimento che per fortuna o per disgrazia mi ritrovavo a vivere. Di sera, in quel periodo, quando mi rimettevo a pensare, nella penombra del mio Studio, senza il fastidio di nessuno, finalmente potendo rimanere da sola… tiravo un sospiro di sollievo a quel mondo che mi affaticava in una maniera tutta particolare: ogni sguardo mi toglieva energia, ogni frase che non fosse corredata da un sorriso finale… mi faceva scoppiare dei mal di testa insopportabili. Con quei miei capelli assurdi… troppo piatti, senza forma, tanto da credere che nessuno volesse mai parlare con me per colpa loro. Quando non sapevo cosa fare odiavo me stessa e odiarsi richiede un sacco di forze. Quando arrivava l'ora di andare a dormire ritornavo a scrivere, come se niente fosse, lasciando che le parole mi raggiungessero, sicura di non sentire alcun male. Tanto tempo fa credevo ancora al destino. Lasciavo che i miei pensieri mi parlassero. Tenevo quelle frasi molto al sicuro… volevo che i loro suoni mi cullassero. Volevo piangere. Piangere era il mio modo di riposarmi. A ricordarmi adesso, sempre più immobile e indistinta, con quel senso di immobilità che me lo sentivo come piombo in fondo all'anima, come un peso così intollerabile, così magra e spigolosa, così sola, senza arte né parte, così confusa e devastata da cosine talmente piccine che adesso mi farebbero sorridere, non so che cosa provo. Un po' mi manco. Ora, di sera, non m'addormento più, come da ragazzina... E un po' non mi sopporto. Cosa mi sarebbe costato chiedere un abbraccio a mio padre, quando ancora era in vita? Del resto… avevo solo bisogno di sentirmi dire: "Ce la farai". Anche se pronunciata con la migliore delle intenzioni. Sa di congedo. La mia mente la traduce, oggi, nel seguente modo: "Da questo momento sei sola". E fa scattare un conto alla rovescia che ad ogni rintocco mi ripete scanditamente: "Potresti essere una potenziale delusione... Potresti essere una potenziale delusione…".Sì, ce la farò. Probabilmente è vero. Di sicuro lui non mi avrebbe negato la speranza. Ma, dopotutto, non ho bisogno di farcela sempre. A volte ho solo bisogno di avere la possibilità di non farcela. Chi ha scelto di amarmi non dovrebbe mai dire: "Ce la farai". Dovrebbe semplicemente sussurrare: "Comunque vada, io ci sarò". Perché: "Ce la farai" è una frase pessima. Non so dove sia adesso quella ragazzina. Certe volte, penso che sia cresciuta con i suoi limiti, ma quando provo a superarli e le cose tornano a girare per il verso giusto, credo sia ancora con me. Altre volte, quando prendo il treno che mi porta in Corte d'Appello o in qualche Cancelleria lontana e le persone mi sembrano tutte uguali, tutte grigie e stanche, credo di aver perso quella parte di me, così giovane e spontanea. In ogni caso, non si sa come, penso di avercela fatta a mantenermi come sono: inarrivabile.


(Dedicato a me... A quei dialoghi intimi che avvio con me stessa, senza doverli programmare o inscenare. Senza essere innaturale, insomma... Certe incertezze devono trovare la loro strada, senza intromissioni).

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